Celina, Maria Vittoria, Rosa, Margherita e le altre

Donne in ospedale, di Pat Carra

Ricoverarsi in ospedale permette di conoscere persone che altrimenti non incroceresti mai.

La più toccante è stata Celina Moncada, una traduttrice e poetessa nicaraguense. Era già ricoverata quando sono arrivata io. Era molto debole, mangiava pochissimo, aveva difficoltà ad alzarsi. Abbiamo parlato un po’. Ci è sembrata una bella coincidenza essere capitate insieme. Entrambe traduttrici, anche se lei mi disse che aveva tradotto l’opera di Padre Ernesto Cardenal, mentre io solo becera finanza. Io ero stata in Nicaragua, dove erano nati i miei nipoti  e mia sorella aveva vissuto per qualche anno. Lei contava di tornare a casa entro poche settimane.
L’ho aiutata qualche volta a camminare fino in bagno. Anche se poi gli infermieri mi hanno sgridato, dicendo che era pericoloso, che non dovevo prendere queste iniziative. Ma era leggera come un uccellino e gli infermieri ci mettevano sempre troppo. Era percepibile una specie di razzismo inconsapevole del personale medico. Per loro era una immigrata. Nessuno l’ha mai aiutata a mangiare nei rari momenti in cui non c’era il marito. Nessuno si sbracciava a lavarla la mattina. Tempo dopo, quando mi è capitato di condividere la stanza con una donna il cui fratello era un OSS nello stesso ospedale ma in un altro reparto, ho potuto vedere la netta differenza di trattamento: grandi sorrisi, estrema gentilezza, ogni mattina arrivava una ragazza ad aiutarla a lavarsi, ad andare in bagno, ad ogni pasto controllavano che non avesse bisogno. Mentre Celina, no.

Credo che i medici non avessero avvertito la famiglia della gravità della situazione, tanto che il terzo giorno è nettamente peggiorata, io me ne sono andata in giro per i corridoi (poi mi hanno cambiato di stanza), è arrivato il prete (quello c’è sempre) e in poche ore Celina è morta. Ho percepito lo shock della famiglia. E una profonda tristezza. Parlando con gli infermieri ho detto che eravamo colleghe, e che anzi lei era molto più brava di me. Il loro stupore nel rendersi conto che quella signora straniera, magra magra, non era una povera immigrata “qualsiasi”, ma una persona, come me, con una sua vita, un lavoro, figli, un valore enorme. Perché in fondo per noi occidentali gli stranieri, quelli dall’aria povera, sono solo un numero, e la loro vita conta pochissimo.

Un’altra volta ho conosciuto Claudia (la chiamo così perché non ricordo il nome) attorno ai 60 anni. Madre di un figlio unico ingegnere che da poco lavorava in un impianto nucleare in Belgio. Un giorno mi chiede “scusa se ascolto le tue conversazioni, ma ho sentito che viaggi, prendi l’aereo, ma come fai?”.

Insomma, il cruccio maggiore di Claudia era il fatto che non poteva più andare a trovare il figlio perché i medici le avevano detto di non frequentare luoghi affollati. Lei da questa raccomandazione aveva dedotto che non potesse viaggiare in aereo o in treno. E quindi da mesi aspettava con ansia l’estate per rivedere il figlio che veniva in vacanza. Le ho spiegato che era sconsigliato frequentare i centri commerciali di sabato, ma che per il resto poteva vivere una vita normale. È uscita dall’ospedale felice all’idea di poter prenotare un volo per il Belgio.

Anna, invece, è arrivata in ospedale munita di detersivi. Appena arrivata ha disinfettato e pulito da cima a fondo la stanza (dal mio punto di vista già pulitissima). Nei giorni seguenti ho scoperto poi che lei non usciva mai di casa senza il marito per la paura di sentirsi male. Nulla del suo tumore indicava una tale esigenza, ma lei dal giorno della diagnosi si era infilata nella categoria dei malati, e lì era rimasta. Ho anche scoperto che nel loro rapporto di coppia anche prima non avevano attività di tempo libero l’uno senza l’altra. Facevano tutto insieme. Per me era così strano. Non avevano amici d’infanzia che non fossero comuni. Anna ha ammesso di avere voglia di visitare mostre e musei, attività che invece suo marito non apprezzava. In fondo, obbligati a fare tutto insieme, si erano tarpati le ali, eliminando ciascuno le attività che l’altro non apprezzava. Spero che nel frattempo abbiano cambiato rotta.

Valentina, 35 anni circa, dipendente di una importante casa di moda, campana. Un po’ vittimista. Single. Mi ha raccontato che quando le sono caduti i capelli è scoppiata in lacrime. Io, molto sorpresa le ho chiesto perché, e mi ha risposto “perché sono molto vanitosa”. Per me la perdita dei capelli non è mai stato un problema, ne avevo pochi anche prima. Almeno ora ho la scusa della chemio. E ci posso “giocare”: rasare, colorare, tatuare la testa con l’henné. Lei mi ha insegnato a bere il miso, che il mio nutrizionista mi aveva già suggerito, ma io pensavo fosse una cosa complicata. Lei durante e dopo la chemio mangiava solo mele e beveva zuppa di miso (per chi volesse, si trova in bustine monodose su amazon o in negozi specializzati, sotto forma di pasta o liofilizzata, da versare in 300 ml di acqua bollente). Cinque minuti per prepararla.

Un’altra donna, chiamiamola Domenica, di Garbatella, romana verace, in sedia a rotelle per le metastasi alle ossa. In radioterapia. Stava programmando il modo per rientrare in casa senza farsi troppo vedere dal vicinato, perché si vergognava a mostrarsi “invalida”.

Maria Vittoria, era una donna in fondo molto fortunata. Una famiglia fantastica, sempre presente. Il padre anziano veniva tutti i giorni, parlava poco ma voleva esserci. Avevano una impresa di famiglia, una lavanderia industriale. Ci lavoravano anche i figli, o almeno uno dei figli, che la veniva a trovare tutti i giorni con la fidanzata. Anche il marito era molto presente, appena poteva assentarsi veniva. Maria Vittoria si era occupata dell’amministrazione della società, quindi la coinvolgevano con i racconti. Le portavano dei dolci buonissimi e siccome erano molto socievoli e gentili, portavano sempre qualcosa anche a me. Anche la frutta: nespole, fragole, ciliegie. Poi c’era l’altro figlio, più “scapestrato”, che si intrufolava la sera, verso le 21, un po’ di nascosto,  dopo la palestra. Alto, molto bello. Veniva per starle accanto e farle dei massaggi alle gambe, perché Maria Vittoria stava mollando e non si alzava più dal letto, aveva qualche piaga da decubito e la necessità di attivare i muscoli. Ed era uno spettacolo vedere questo ragazzo massaggiare sua madre con un olio profumato tutte le sere e con tanto amore. Questa famiglia mi è rimasta dentro. Io ho provato a scuotere un po’ Maria Vittoria, che era stanca dei dolori e delle cure. Con una famiglia così non puoi cedere. Per te non puoi cedere… Lei era molto contenta di essere mia compagna di stanza. Siamo rimaste in contatto anche dopo per un certo periodo, dovevo andare a trovarla a casa. Poi un giorno sulla sua pagina Facebook ho scoperto che era morta. Una donna così deve aver distribuito tanto amore e tanta cura, per riaverne indietro in tali quantità. Bellissimi tutti.

Una delle ultime che ho conosciuto è Rosa, trapanese. Simpatica come poche. Il marito era rimasto a Trapani per tenere aperto il negozio di articoli da pesca. Ed era coccolato dalle vicine di casa. Rosa mi raccontava che nel palazzo le famiglie si erano trasferite quasi contemporaneamente da giovani coppie e avevano avuto figli quasi insieme, li avevano cresciuti insieme, aiutandosi l’un l’altra. E ora quindi era naturale che dessero uno sguardo al marito lasciato solo. La vicina del piano di sopra controllava che il marito di Rosa avesse steso bene i panni fuori… e ogni tanto passava a pulire. E invece Rosa aveva a Roma la figlia Anna, madre a sua volta di due ragazzi, e sua sorella, Valeria, momentaneamente ospite di Anna. Una fortissima solidarietà. Ma anche sorrisi. Rosa ogni giorno controllava che il marito mangiasse bene e che Valeria stesse bene. Combattiva. Non accettava in silenzio le omissioni dei medici. Ha preteso di essere curata come si deve. Ha anche chiamato i Carabinieri quando si sono rifiutati di ricoverarla di nuovo. Vincendo il braccio di ferro, anche se il personale medico l’ha guardato con orrore, perché questi affronti non si fanno… Sono ancora in contatto con Anna e so che Rosa continua a curarsi. Se posso la andrò a trovare a Trapani molto presto. Sicuramente avrà i lampadari pulitissimi, perché quando era ricoverata il suo pensiero era tornare a casa per spolverare i lampadari.

Di Margherita ho già parlato qui . L’ho rivista negli ultimi giorni. Continueremo a restare vicine, lo so.

Queste sono le donne che più mi sono rimaste dentro, per motivi molto diversi. Il tipo di tumore non me lo ricordo, credo che nessuno fosse al pancreas, ma eravamo unite da storie di cancro. Ho imparato che le donne con tumori continuano a lungo a vivere vite normali, a organizzare le vite del resto della famiglia, a occuparsi degli altri. A pensare ai loro pasti. Ai panni da lavare.  Ad aiutarli a vivere. E quindi è vero che quando si ammala una donna, si  rischia che si ammali tutta la famiglia . Ma siccome con un po’ di impegno gli uomini sono in grado di crescere rapidamente e svezzarsi, penso che sarebbe il caso almeno in situazioni come queste che facessero un corso accelerato di funzionalità adulte e percorsi di autonomia, che imparassero a camminare da soli (alcuni uomini che ho conosciuto negli ultimi due anni ovviamente smentiscono questo quadro, ma temo siano una rara seppure preziosa eccezione) E poi, se non è chiedere troppo, anche dare una mano attorno. Ne otterrete grandi soddisfazioni.

2 Commenti

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fabiorispondi
15 Febbraio 2020 a 09:16

La mia vignetta.
Pur iniziata nello stesso identico momento, per fortuna della mia amica Franci, la nostra esperienza di donne e tumori,(lei come malata, io come Care Giver) si è divaricata da tempo.
Ma con il cuore sempre in sintonia, con lei e con Anna che non c’è più, mi sento di aggiungere al suo bellissimo racconto, come sarebbe stata la mia vignetta, che forse conferma il suo finale, o forse no, ma che prendo in prestito dal racconto di un’altra sorella.
Si chiama “Il lunedì lo aspetto qui”.
Due letti vicini in una stanza d’ospedale.
Prima donna dice: “Io chiedo di andare a casa il fine settimana. Tanto fino a Lunedì non ci fanno nulla.” Seconda donna: “Sshh Sei matta? Io ho marito e due figli. Starei tutto il tempo a preparare e mettere a posto.. Qui mi servono e mi curano. Il Lunedì lo aspetto qui!

Angelorispondi
16 Febbraio 2020 a 22:25

Da “care giver”, sia pure in una situazione parzialmente diversa, dico che a noi testoni maschietti occorre affidare, restituire, pretendere responsabilità… e anche accettare che facciano, magari, le cose a modo loro e non nostro :-D. Una delle mie battute è che chi fa, ha il diritto di organizzarsi come vuole. Capisco il bisogno di continuare a essere centrali, necessarie… ma forse non è il modo giusto, per quanto sia pieno di amore e di attenzione…
Grazie per questa pagina piena di persone! Il rischio di essere ridotti a casi, se non a numeri, è altissimo. E tutto ciò che non è cartella clinica scompare. Così gliela si dà vinta, alla malattia, anziché sfruttarla come occasione per continuare a vivere!
Grazie, sempre!

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