Ex collezionista di candele

Parte della mia collezione

Rientrata da Milano dopo la visita oncologica, sono stata costretta alla quarantena, imposta per legge a tutti coloro che avevano visitato la Lombardia nei giorni precedenti. E così fino al 21 marzo sono agli arresti domiciliari.

So che non mi devo lamentare. Migliaia di persone stanno morendo per il coronavirus. Io non mi lamento quasi mai. Eppure stavolta mi sento come un leone in gabbia. In una gabbia dorata, certo. Ma per il mese di marzo avevo in programma un viaggio in Sicilia di almeno quindici giorni, da sola, in auto. Avrei chiesto ospitalità alle persone che conosco là, avrei conosciuto posti nuovi. La partenza era programmata per il 20 marzo, con l’auto da imbarcare sulla nave a Civitavecchia.

E invece niente. Le navi neanche partono. La Sicilia ha chiuso i confini e tutti siamo costretti a stare rinchiusi. Eppure faccio una gran fatica dopo mesi in cui la mia vita era caratterizzata da continui spostamenti obbligati dal pendolarismo per la chemioterapia a Milano, alla quale però aggiungevo sempre qualche sosta, magari a Reggio Emilia da Marilena, o un giorno in più da Anna, che mi porta a visitare qualche museo o qualche chiesa di Milano. In realtà anche solo rivedere i miei amici e il mio oncologo mi metteva di buon umore.

Aggiungo che in questi giorni di pausa collettiva forzata, i social sono in continuo fermento. Tutti postano messaggi, notizie, chat, telefonano e così per la prima volta mi sento sopraffatta e sento l’esigenza di sconnettermi.

Ho deciso di creare un’atmosfera accogliente in casa, almeno nella parte di casa che frequento io. E quindi mi sono ricordata di una scatola che avevo riposto quando abbiamo traslocato qui oltre dieci anni fa. Di scatole ne ho trovate due, piene di candele di ogni forma, colore e profumazione. Pallette galleggianti, lunghe candele eleganti, pupazzetti natalizi, di tutto. Con relativi porta-candele.

E mi sono resa conto che io ero una collezionista di candele, che mi piacevano moltissimo, ma che mi scocciava consumarle. E così accumulavo. Ne usavo molte meno di quante ne comprassi. Alcune hanno trent’anni, ancora profumano. C’è anche una scatola di candele steariche, di quelle che davano nei seggi elettorali con il resto del materiale, qualora andasse via la luce. Ma è follia.

Parallelamente mi è balenata la consapevolezza di avere piatti, bicchieri, posate, tovaglie che non uso mai. Come si faceva una volta, le tenevo per le occasioni importanti, per quando invitavo amici a casa. Ma i miei inviti erano sempre collettivi, raramente di due-tre persone. E se inviti dieci persone, non puoi usare i piatti belli, perché non bastano, ci sono troppi bambini, non ha senso. Quindi stanno nell’armadio inutilizzati, in attesa di migliori occasioni. Vestiti, no, quelli no. Mai comprato vestiti per le occasioni speciali. Non sono il tipo.

Così in questi giorni sto consumando molte candele. Ogni sera almeno due o tre. Senza rimorsi. Collezionarle è un po’ come aspettare di festeggiare la guarigione dal tumore al pancreas. E nel frattempo vivere nell’ansia costante, non concedersi tregua. Non vivere il presente, sacrificandolo a un futuro improbabile.

Questo non vuole essere un inno al consumismo (anche se poi le candele sono veramente un oggetto stra-consumistico, a pensarci, le accendi per creare atmosfera, e le consumi in poche ore). Al contrario. Più un invito a riflettere da un lato su quanti oggetti accumuliamo per poterli usare in un secondo momento e, dall’altro lato, su quanto soprattutto con le malattie come la mia, non riusciamo a goderci il presente. Io in reclusione sto cercando di ricrearmi un presente completamente diverso da quello che mi appassionava fino a dieci giorni fa. Un presente di bella musica, di lettura, di dialoghi con chi magari ha bisogno di parlare.

A Milano la scorsa settimana mi sono confrontata con il mio oncologo: abbiamo aperto insieme il referto del marcatore CA 19.9, importantissimo per chi ha il tumore al pancreas, e confrontato con il referto della TAC fatta pochi giorni prima. Le notizie non erano bellissime: era evidente  che la chemio in corso, il Capiri, non stava più funzionando al sesto ciclo. Ma niente di tragico. Dovevamo cambiare strategia. Ormai ci siamo abituati.

Ne abbiamo parlato insieme, ho fatto qualche domanda, e alla fine ovviamente ho chiesto al dottore di scegliere lui. La fortuna ha voluto che abbia scelto l’opzione più gestibile in questa situazione di isolamento prima che si sapesse come sarebbe andata a finire.

Da sabato 7 marzo assumo l’Olaparib, un farmaco che l’AIFA mi ha concesso, dopo una certa insistenza, nonostante non sia ancora autorizzato per il tumore al pancreas. Me lo ha autorizzato come cura compassionevole, pagata attraverso il Fondo del 5%, un fondo alimentato dai versamenti delle case farmaceutiche obbligate a pagarvi il 5% delle loro spese dedicate a promozione e marketing.

Insomma prendo 4 pasticche al giorno. Dopo qualche giorno inizio ad avere un dolore sotto le costole, più o meno dove immagino sia il mio pancreas. Trascorsa qualche ora comincio a preoccuparmi. Poi vado a dormire e il giorno dopo mi sveglio con lo stesso dolore. Inizio quindi a fare una serie di conversazioni mentali con il mio oncologo. Io mi preoccupo e il mio io-razionale/oncologo mi ricorda che ho fatto una tac pochi giorni prima che, è vero, segnava un lieve peggioramento, ma lieve, non tale da provocarmi mal di pancreas, così tutto insieme. Mi preoccupo e il mio io-razionale/oncologo mi ricorda che per  il resto sto bene, non ho alcun segno di peggioramento, non sto dimagrendo, non ho problemi di digestione o intestinali. Niente. Solo quel dolore. Per parecchie ore cado in un’atmosfera da “me tapina”, alimentata dall’isolamento e dal cielo plumbeo.

È un passo dal me tapina ad arrivare a pensare

ma guarda che destino. Sono mesi e mesi che mi sono costruita una vita su misura, circondata da tante persone che mi vogliono bene, vado al cinema, a mangiare fuori, viaggio, passeggio, sfrutto ogni momento per fare cose che mi piacciono e non spreco tempo che non ho a fare cose spiacevoli o inutili. E ora sto per morire in clausura. Le mie ultime settimane saranno così, da sola con la mia micro-famiglia, senza abbracci, senza sole, senza viaggiare, senza salutare le persone che mi vogliono bene. Che destino assurdo! D’accordo che non puoi programmarti la morte come ti pare, ma così proprio non l’avevo messo in conto”.

E giù a compiangermi. Stavo per scrivere a quegli amici ai quali avevo raccontato come voglio che sia il mio non-funerale, per raccomandare loro di seguire un minimo le mie indicazioni, anche se non ancora ufficiali.

Poi in un momento di lucidità, anche  se ormai era notte, prendo la scatola dell’Olaparib e mi rileggo tutto l’elenco dei possibili effetti collaterali. Ed eccolo là, quasi ultimo della lista: “Dolore nella  zona dello stomaco sotto le costole (dolore addominale superiore)”. Quasi lancio un urlo. A quel punto il dolore inizia ad attenuarsi. Vado a letto e mi sveglio senza alcun mal di stomaco. Incredibile come la mente possa incidere sul dolore, amplificandolo più ti ci concentri su, oppure in questo caso mettendolo come in standby nel momento in cui non è più considerato grave. L’ho avuto ancora ogni tanto quel dolore negli ultimi giorni. L’oncologo mi ha aumentato la dose del gastroprotettore, per il rischio di gastrite iatrogena (sono andata a guardarmelo, significa gastrite provocata da farmaci).

Dall’inizio del mio percorso cancreatico mi sono resa conto che la mia mente amplifica i dolori che temo siano indotti dal tumore stesso, mentre tutto ciò che ha altra origine, quindi gli effetti secondari della chemio, avendo natura passeggera e non essendo sintomo di malattia, vengono classificati come irrilevanti e in fondo quasi scompaiono.

Comunque, tutto questo sproloquio sul mio mal di stomaco era solo per dirvi che è inutile conservarsi le candele per dopo, è inutile perdere tanto tempo a programmare il momento ideale per fare un bambino, sposarsi, cambiare lavoro, fare il viaggio tanto desiderato, lasciare il partner, cambiare scuola, iniziare a fare volontariato, scendere in piazza per lottare per maggiori diritti, leggere quel libro che mi ha consigliato la mia amica. Pensiamo quel poco che basta per non combinare disastri e poi accendiamola la candela.

3 Commenti

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Max Marinellirispondi
19 Marzo 2020 a 03:31

Me sembra che il destino più crudele ce l’abbiano le candele.. Vojo dì, mò tu, mettete ar posto de ‘na candela.. ce sei? ecco..
Allora, intanto stai ar buio, dentro a ‘n cassetto.. e nun te se fila nessuno..
Stai dentro ar cassetto? Stai al buio? Brava..
Sei bella, colorata, profumata.. ma stai dentro al cassetto.. al buio…
E un giorno, arriva qualcuno che apre quel cassetto.. “O che bella che sei.. candela!!”
“Bella, si.. e però nun servi a gnente!”
“Aspè!.. Io me ricordo che t’ho comprata.. però, non so bene perché.. Se fossi così bella, d’altronde, nun te terrei dentro a un cassetto.. Se fossi utile almeno, te userei.. Chissà perché.. forse quel giorno, vokevo semplicemente comprà qualcosa, perché così m’hanno ‘nsegnato… e siccome, tu, costi poco, e soprattutto nun servi a niente.. Me sa che t’ho comprata, perché così non me serviva alcuna auto-giustificazione.. e so’ riuscito a mascherà, una mera istruzione che c’ho scritta nel Programma, co’ un gesto insignificante, innocuo, e a basso costo emozionale.. Come se fa quando che so, voresti pijà qualcuno a calci in bocca, faje veramente male, e poi dai un euro a un marocchino..”
“E mò, bella candelina mia! Mò, che me rendo conto, me dispiace.. na sei ‘n problema.. Viè qua, che te brucio!.”

Perché nessun uomo è libero, neanche il più libero.
Perché siamo uomini, in mezzo agli uomini.

Francifishrispondi
22 Marzo 2020 a 16:43
– Rispondi a Max Marinelli

Mmmmh, mica sono tanto d’accordo. Intanto le candele stanno al buio in una scatola, ma sono in compagnia. Quindi possono sempre socializzare fra loro. Poi io quasi tutte mi ricordo dove le ho comprate. E il punto è che per me erano talmente preziose da dover essere comprate ma non consumate, ché poi non ci sarebbero state più. Non ero pronta a goderne ma vederle scomparire. Semplicemente non gli ho permesso di fare le candele, limitandole al massimo al ruolo di belle statuine.
Io poi resto dell’idea che “libertà è partecipazione

Massimiliano Marinellirispondi
3 Aprile 2020 a 21:51

mmm… se fossi (un po’) più d’accordo, forse saresti (un po’) più libera. La partecipazione non ha nulla a che fare con la libertà, Libertà è non sentirsi mai completamente liberi.

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