Un weekend in neurologia

L’epifania del 2018 la comincio facendo una risonanza magnetica al cranio, all’Ospedale San Camillo di Roma. Per la prima volta in vita mia salgo in ambulanza, per essere trasportata dal Pronto Soccorso al reparto di radiologia. E da lì allo Stroke Unit.
Lo Stroke Unit coincide, per quanto ho capito, con il tradizionale reparto di neurologia. E infatti vengo ricoverata in una stanza con due signore molto anziane, colpite da demenza senile.

Una delle signore è totalmente assente ed assistita da qualcuno per ogni esigenza. L’altra parla, è un po’ sorda, un po’ strana, ma più presente. La dottoressa Anticoli mi conferma che la risonanza magnetica riporta che ho avuto un ictus. Molto lieve. Ma ictus. Mi visita. mi fa sorridere, muovere le braccia, etc. E poi mi chiede “ma tu sei mancina?”. Ecco, con quella domanda l’ho amata e ho avuto la conferma di avere a che fare con una vera professionista. I mancini mi capiranno, credo. Ma il fatto che fosse riconosciuto da chissà quale piccolo dettaglio del mio sorriso, che io sono mancina, beh, mi è sembrato bellissimo.

La Anticoli mi conferma di nuovo che molto probabilmente potrò essere dimessa lunedì in tempo per andare a fare la chemio. È chiaro che per me è molto importante.

L’ictus non mi sembra aver lasciato particolari straschici. Certo, fa impressione quando ce l’hai. Avevo sempre pensato che il cervello servisse prevalentemente per pensare, ragionare. Il fatto che sia una centrale di smistamento comandi mi sfuggiva. Cioè, finché non hai un problema, se devi parlare, apri la bocca e il suono esce, a meno che non hai la laringite. Non avevo pensato al fatto che parlare implichi una intermediazione del cervello. Ero abituata a pensare che i problemi che ti possano impedire di parlare siano più di tipo “meccanico”.

Quindi aprire la bocca e non riuscire a proferire parola fa oggettivamente impressione. Da allora, ogni tanto quando mi viene il dubbio di avere in corso un ictus, parlo, anche da sola, per vedere se il cervello riesce a trasmettere il comando. Che poi è una cosa un po’ scema, perché l’ictus ti può prendere da altre parti del cervello, più “importanti” che ti impediscono altre funzioni ben più gravi che quella di parlare.

Nei giorni e nelle settimane successive capirò che l’ictus ha lasciato altri segni, meno immediati, ma per me chiari nel momento di lavorare. Digitare alla tastiera è diventato più complicato, la quantità di errori moltiplicata e, cosa forse peggiore, se rileggo ciò che ho scritto, mi sfugge alla vista almeno un terzo degli errori.

All’inizio di gennaio ho chiesto aiuto a colleghi grandiosi come Adele, Marco, Alessandra, che nonostante il periodo di intenso lavoro, si fanno in quattro per aiutarmi all’ultimo momento. Per permettermi di non saltare completamente i tempi di consegna concordati e per rivedere i testi che sto traducendo chissà come. Mi spaventa il fatto di non poter lavorare in maniera decente. E in questi giorni ogni traduzione che faccio mi porta via tantissimo tempo e tanta fatica. La dottoressa Anticoli mi rassicura, dicendo che tutto regredirà progressivamente col tempo, consiglia di continuare a lavorare, a scrivere, così piano piano il cervello recupererà a pieno le sue funzioni.

Per il resto, noto che al San Camillo hanno letti più moderni di quelli dell’IFO, hanno il telecomando per sollevare la testata o i piedi del letto, e che il the della colazione lo servono in una ciotola larga. La mia vicina di letto sceglie per colazione di mangiare fette biscottate, burro (perché la domenica qui servono pure il burro!) e marmellata: tutto insieme nel the, cosa possibile solo grazie all’esistenza di queste ciotole, mentre io ero abituata ai bicchieri di carta. Sono affascinata dalla sua scelta di mischiare tutto insieme nel the.

Mi cambiano la federa anche due volte al giorno: i miei capelli si stanno suicidando in massa o, chissà, sono in fuga dall’ictus.

Lunedì mattina mi sveglio presto, mi gratto la fronte, sento scorrere del bagnato, apro gli occhi e vedo sangue che sgorga a fiotti dalla mano. Mi avevano infatti lasciato un ago nella vena della mano, chiuso con un tappetto (in caso servisse per qualche emergenza). Intuisco che deve essere saltato il tappo. Cerco il telecomando per chiamare aiuto, ma il mio letto non ne è dotato. Mi metto seduta e chiedo alla “signora della ciotola” se può chiamare aiuto. La vedo poco reattiva. È un po’ sorda, quindi lo ripeto a voce più alta “SCUSI, PUÒ SUONARE IL CAMPANELLO CHÉ HO UN PROBLEMA?”. Niente da fare, non reagisce. Mi metto a ridere da sola pensando alla scena assurda.

Esco in corridoio e chiamo, cercando di non disturbare troppo. Arriva una infermiera sbuffando e mi mette un tappino per chiudere il flusso. Rientro in camera e vado al bagno. Sangue che mi scorre lungo il viso e lungo il braccio. Mi lavo. La stanza sembra aver ospitato una scena di Shining, schizzi di sangue ovunque, che restano lì fino al giro dei medici.

I medici non si lasciano spaventare, e anzi ridono anche loro, e decidono di concedermi una dimissione protetta per andare a fare la chemio e poi tornare a fare altri controlli in settimana. Lidia, la mia amica parrucchiera dal cuore immenso, mi passa a prendere, mi porta direttamente nel suo negozio, e mi taglia tutti i capelli. Corti corti, un centimetro appena, pronta per una nuova chemio.

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